Narrativa
Ho allontanato presto da me, assieme all’esperienza del disegno e della pittura, l’inquietante malìa provata con le primissime appassionanti prove di racconto che forse mi avrebbero dirottato verso il piacere profondo che può dare la scrittura del romanzo. Oggi so bene quanto quelle sperimentazioni abbiamo corroborato in profondità la mia scrittura, e senza la forte nostalgia che ancora provo per il romanzo autobiografico non starei scrivendo Principi dell’esilio.
2009
La funzione della narrativa è evidentemente quella di coltivare la libertà individuale attraverso la percezione di frammenti di esistenza che sono fuori dall’esperienza concreta e quindi più serenamente osservabili, mentre lo specificio letterario consiste, credo, nel concretizzarsi di una forma capace di circoscrivere e trattenere nei suoi limiti una zona d’esperienza altrimenti sfuggente e irrappresentabile con altri e diversi strumenti linguistici.
Nella prosa più autentica questo delimitare ha la sua specificità nell’espandersi gradualmente nel territorio della descrizione e del raccontare il mondo opponendosi all’infestazione degli stereotipi e della fossilizzata percezione ipnotica che induce a una sterile familiarità con la parola.
In poesia questo delimitare ha la sua specificità nel contrarre le parole in un congegno irreversibile che mette in salvo una percezione dei frammenti del mondo altrimenti dispersa.
Ora, questi segmenti di esperienza non possono riguardare una presunta realtà, che è quasi sempre manipolata da chi seleziona le notizie e i contenuti, perché una tale presunta realtà è solamente apparente e ci arriva filtrata da scelte arbitrarie compiute da altri, da poche persone che decidono a tavolino, nei giornali, nei governi, nelle case editrici, cosa ci deve indignare e cosa ci deve commuovere o spaventare, scegliendo una porzione minima di realtà che è legata oltretutto a fatti che prevedono quasi sempre una fruizione passiva; e perfino la presunta realtà raccontata a viva voce nella piazza dalla collettività non è altro che il risultato di una sedimentazione di stereotipi fossilizzati e sostanzialmente di sviamenti.
La realtà è evidentemente ciò che ognuno avverte individualmente e parzialmente, e questo inconoscibile insieme è percepibile attraverso i frammenti letterari che ne mettono a fuoco di volta in volta le parti sfocate e laterali.
La presunzione, ora dominante (2015), di praticare una inesistente realtà letteraria, con l’adesione celebrativa alla presunta concretezza dei fatti umani, è il frutto della demagogia più impudica e dell’ostilità più incattivita che viene coltivata per avversare la fertile sensibilità individuale.
Vasi comunicanti. In Esteticità diffusa c’è l’esempio narrativo di Rilke (I Quaderni di Malte). Le mie letture più intense sono tutte presenti in Pensiero poetante, in Pagine, e naturalmente qui nel QI, ma Ulisse è presente ovunque nel libro.
Gli autori
Da ragazzo ho trovato nei romanzi di Jules Verne il piacere dell’osservazione continua, penso soprattutto a I figli del capitano Grant, e questa preferenza ha condizionato e alimentato la mia futura attitudine alla raccolta delle informazioni e alla riflessione sull’insieme del contesto. Il rifiuto di Salgari, che non ho mai voluto leggere, si è esteso poi al rifiuto per la mera, epidermica finzione letteraria, preferivo leggere i Diari di Thoreau e di Delacroix, evitando i grandi romanzi ottocenteschi, a eccezione di Dostoevskij, per dedicare invece tutto il mio tempo alla poesia e ai testi di Schakespeare, Pirandello, Kafka.
Il fu Mattia Pascal,1904, fu per me l’esperienza del perturbante, perché da ragazzo avvertivo quella stessa straniante precarietà che rivivevo nel romanzo. Quel libro era ai miei occhi la dimostrazione concreta di come l’esperienza letteraria possa portare in dono una consapevolezza inedita, fatta di un liberatorio specchiamento e di riconoscimento della propria vita nella vita di altri.
2011
Sono passato gradualmente dalla lettura intensiva di Kafka e di Poe all’Ulisse di Joyce cercando una sempre maggiore complessità.
I racconti epidermici di Borges li ho letti solamente per la loro piacevolezza esteriore. Dopo aver letto per tutta la vita tanta poesia, dedico adesso più tempo alla narrativa: Sterne, Flaubert, Dostoevskij, Rilke, Proust, Gadda, Wallace, DeLillo, Musil, Vasta.
Sterne
Il romanzo di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759-1767, it.1992), innestato con accattivante leggerezza nella cultura illuministica anglosassone, è oggetto di un’ossessiva attenzione da parte di chi cerca ovunque inverosimili anticipazioni della modernità. Un saggio in rete ricostruisce con stupida puntigliosità scolastica e con ottusa cecità la presunta anticipazione di Sterne sullo sperimentalismo letterario novecentesco (ma v Vitalità del pensiero poetante per una diversa e opposta angolazione critica).
Melville
Herman Melville, Moby Dick, 1851, traduzione di Bianca Gioni, 2011.
L’inizio di MD è straordinario (Qualcosa compare in lontananza):
‘Guardate lì le folle dei contemplatori dell’acqua ( ) migliaia e migliaia di mortali impietrati in sogni oceanici ( ) Che fa qui questa gente? ( ) è la forza magnetica degli arghi di bussola di tutte quelle navi, forse, che li attira qui? (pag.33-34).
Impossibile non pensare al perturbante L’uomo della folla (1840) di Poe.
In La costa a sottovento c’è l’inquieta poetica del rischio:
‘in una tempesta il porto, la terra, è il pericolo più terribile per una nave. Essa deve fuggire ogni ospitalità, un solo contatto della terra, anche solo una carezza alla chiglia, la farebbe rabbrividire da cima a fondo. Con tutte le sue forze, la nave spiega ogni vela per scostarsi. E nel farlo, combatte proprio contro quei venti che la vorrebbero spingere verso casa, va cercando di nuovo tutta la mancanza di terra di quel mare infuriato. Si getta nel pericolo disperatamente, per amore di un riparo. E il suo unico amico è il suo nemico più feroce’ (134).
A un terzo del libro (192) c’è uno scalino stilistico formidabile, M introduce quasi repentinamente la forma teatrale shakespeariana.
Tramonto (La cabina, vicino alle finestre di poppa. Achab siede solo e guarda fuori):
‘Mi lascio dietro una scia bianca e torbida: acque pallide, facce più pallide, dovunque vada ( ) Laggiù, agli orli del calice sempre ricolmo ( ) la fronte d’oro scandaglia l’azzurro ( ) e la mia anima sale. Stanca dell’erta che non ha mai fine’.
Decisi di leggere MD dopo aver letto l’apertura del romanzo nella versione di Pavese, meno intensa della splendida traduzione (2011) della brava Gioni, ma ugualmente affascinante: ‘Guardate la folla.. ( ) mortali perduti in fantasticherie oceaniche.. ( ) Che cosa fanno qui costoro? ( ) forse il potere magnetico degli aghi delle bussole di tutte quelle navi li attira qua?’
Leggendo MD mi accorgo che nella sua dettagliata descrizione della vita sulla nave manca la fragilità del baricentro del corpo. La nave risente delle onde, il mare in movimento è sempre presente, ma tutto è fermo e i corpi non sono deformati dallo sforzo di mantenere l’asse verticale del baricentro. Dopo aver cercato la specificità della danza, e poi del design della nave, non posso fare a meno di pensare la vita su una nave come una lotta costante ingaggiata per mantenere la coerenza strutturale del corpo insidiata dall’oscillazione continua e avvertire il rapporto conflittuale tra la forma del corpo e la massa fluida del mare che la nega.
Anche se sono nato in una città come Livorno, sono stato pochissimo sul mare, però ho il ricordo indelebile di una gita in barca con mio padre e ho la memoria intensa del baricentro del corpo che sfugge al controllo nell’oscillare pauroso della barca, una sensazione che non ho provato nelle piccole navi che portano a Capri, ad Amalfi, alle Cinque terre, nei canali di Venezia, nelle acque di Mantova, sul Tamigi, se non al momento dell’attracco, quando per pochi minuti la barca è indifesa e privata dell’energia meccanica del motore che ne ha snaturato la funzione e torna a essere l’antica nave a vela dominata dalle onde. In quel momento si prova il perturbante smottamento del baricentro fuori dal corpo.
Leggo con piacere Moby Dick, ma sento nelle sue pagine la mancanza di questo fenomeno radicale.
Ho avvertito l’inquietante precarietà del corpo in mare salendo sulla Vespucci, a Genova, dove i volumi non sono piani, ma bombati.
Melville mi ha sorpreso con il racconto breve Bartleby lo scrivano (1853, it. 2010). Il suo Moby Dick ha delle pagine di apertura impressionanti, ma dopo viene troppo appesantito dalle descrizioni e da una eccessiva volontà di costruzione barocca del racconto di impronta biblica. La retorica che frena MD viene messa però da parte nella perturbante percezione della figura di Bartleby, che coniuga lo sgomento dell’uomo della folla di Poe con il futuro uomo disorientato di Kafka (cfr. in Vitalità del pensiero poetante il Trascendentalismo).
Gustave Flaubert
F non è un eroe romantico, è pieno di spiacevoli contraddizioni, come lo sono in quegli anni anche Baudelaire, Dostoevskij e Tolstoj, ma con tutti loro la letteratura è più importante dell’autore stesso, è una forma autonoma esentata dall’etica, uno strumento per registrare il mondo, qualunque esso sia, e l’autore è il medium che permette questa registrazione.
Fino all’età di otto anni F non legge e sembra essere stupido. Sartre, nel suo studio del 1971-1972, L’Idiota di famiglia, a quanto pare attribuisce una grande importanza a questa iniziale situazione psicologica dello scrittore; ne scrive Alain Goussot, Gustave Flaubert, l’idiota di famiglia, 2013, mostrando la persistenza di un equivoco fondamentale che continua a infestare la comprensione corretta del rapporto tra letteratura e psicologia: G sostiene infatti nel suo testo che la ‘fragilità’ può diventare un ‘punto di forza’, un ‘paradosso’, scrive Goussot, presente nella vita di tanti autori, da Dostoevskij a Van Gogh, da Nietzsche a Wittgenstein (autistico Asperger), senza capire che la trasformazione del dolore individuale in creatività comporta il prezzo altissimo dell’intera esistenza di chi lo vive. Solamente lo studioso accademico può credere davvero alla positività della ‘fragilità’, una patetica mistificazione scolastica accettata da tutti coloro che sopportano bene soprattutto il dolore degli altri.
Si tratta di un pensiero ambiguo, in parte condivisibile, che viene trasformato però attraverso la sua estensione scolastica in una stupida formula demagogica. Trasformare la fragilità in punto di forza è evidentemente un processo devastante che si impone all’autore e che non viene mai scelto, come dimostra il triste caso di Wallace, che è diventato scrittore per vincere e sopportare la sua terribile condizione depressiva, e sarebbe davvero grottesco essere felici di avere le opere di Wallace ignorando il prezzo che lui stesso ha dovuto pagare.
Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856. It. 2004, con traduzione e introduzione di Sandra Teroni.
Il romanzo, scritto tra il 1851 e il 1856, viene pubblicato prima a puntate sulla Revue de Paris e poi in volume nel 1857. Il processo per immoralità è immediato, nel 1857.
T non ha solamente tradotto magnificamente il testo, che adesso si legge con grande piacere, ha redatto anche una eccellente e colta introduzione e delle pagine dedicate al suo lavoro di traduzione che contengono un esempio splendido di accurata critica letteraria con una una coincidenza ideale tra forma e contenuto.
La noia che impone con struggente insistenza la sua trama vischiosa nel Bovary è una malattia mortale diversa dall’angoscia che si trova in Kierkegaard, scomparso proprio in quegli anni, nel 1855, e dal nichilismo coltivato da Jean Paul (1825), da Turgenev, Padri e figli (1862), e dal primo Dostoevskij negli anni ’60, li stessi del processo a Madame Bovary.
Baudelaire, che recensisce il romanzo nel 1857 (su L’Artiste), è l’autore che si sente più vicino a Flaubert. F a sua volta aveva letto I fiori del male (1857), che viene processato subito dopo Bovary, e scrive a B: ‘Lei è entrato negli arcani dell’opera, come se il mio cervello fosse il suo: L’ha capita e sentita a fondo’.
In una lettera del suo vasto epistolario F scrive: ‘Mi si crede innamorato del reale, mentre lo esecro. Ho iniziato questo romanzo in odio al realismo. Ma non detesto meno la falsa idealità, con cui ci beffano i tempi che corrono ( ) Tutto quello che amo, là (nel romanzo) non c’è’ (a Edma Roger des Genettes, 1856).
Sono tantissimi i passi affascinanti che registrano uno sguardo sul mondo delle percezioni diffuse che F rivolge ai lati periferici della visuale per sfuggire con il respiro alla tetra trascrizione dell’insoddisfazione irrequieta che domina il romanzo:
‘Il raggio luminoso che saliva diritto dal basso attirava verso l’abisso la massa del suo corpo. Le pareva che il suolo oscillante della piazza si alzasse lungo i muri e che l’impiantito sì inclinasse da una parte, alla maniera di un vascello che beccheggi. Stava proprio sull’orlo, quasi sospesa, immersa nello spazio. L’azzurro del cielo la invadeva, l’aria le circolava nella testa vuota, non aveva che da cedere, lasciarsi prendere, e il ronzio del tornio non s’interrompeva..’ (pag.246).
Rilke
Nel suo affascinante I Quaderni di Malte Lauridis Brigge (1904-1910), Rilke non evita il racconto illustrativo, lo trascrive e lo contamina, lo inquina con uno stupore irrequieto che plasma un diverso rilievo perturbante per ogni singola parola (cfr. Esteticità diffusa).
2017.
Questo appunto del 2010 vale anche per l’opera di DeLillo che sto leggendo in questi anni.
Musil
L’opera di Musil, ancorata alla sensibilità di Rilke, si pone al confine tra la ricerca del perturbante che disorienta e la deformazione visionaria della realtà.
L’uomo senza qualità, 1929-1942. Introduzione e cura di Micaela Latini, traduzione di Irene Castiglia (traduttrice di Freud per la NC); versione integrale dell’edizione curata dall’autore, senza le bozze inedite; 2013, Newton Compton.
Al posto dell’orribile copertina della NC ho incollato una riproduzione della 10° sinfonia di Mahler.
Per il rapporto di M con la filosofia cfr. Vitalità del pensiero poetante.
Musil ha voluto inserirsi consapevolmente nell’intercapedine del perturbante che all’inizio del Novecento esiste accanto e separatamente ai due grandi percorsi divergenti, quello dell’estensione liberatoria di Proust e quello della messa a nudo della struttura interna di Joyce.
Il grande interesse per Rilke conferma l’appartenenza di M al territorio del perturbante, e la scelta di un linguaggio acutamente lucido, capace di fare emulsionare in superficie lo sgomento dell’incertezza, lo accosta a Kafka.
Qualche anno fa capii di voler leggere il romanzo, ambientato nell’anno che precede la guerra (1913-1914) dalla bellissima apertura:
Prima parte. Una specie di introduzione. 1. Da cui in modo singolare non si ricava nulla.
‘Da quel frastuono, la cui particolarità è comunque indescrivibile, una persona ( ) avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’impero’ (pag.15).
Nelle prime pagine si avverte forte la presenza affascinante de I quaderni di Malte (1910) di Rilke e della Metamorfosi di Kafka (1916), ma anche di Bouvard e Pècuchet, come suggerisce l’inizio dei due romanzi: ‘Sull’Atlantico incombeva un’area di bassa pressione..’ ‘Con quel caldo – trentatré gradi – nel corso Bourdon non un’anima’.
D’altra parte l’uomo senza qualità di M non avrebbe potuto avere un modello storico diverso dall’uomo banale di Flaubert.
L’impronta così intensa del Malte, un libro che mi ha sempre affascinato, mi ha reso gradevolissima una lettura che viene anche facilitata dal’inedita suddivisione in brevi sezioni che corrispondono alle brusche virate del linguaggio e dell’umore.
Gadda
Nel suo sconcertante Quer pasticciaccio brutto di via Merulana (1957) G crea uno spazio concavo nel quale può respirare solamente la parola, che nella sua continua metamorfosi genera le varianti di se stessa plasmandosi in uno spazio al quale aderisce deformata.
All’orribile copertina del libro (Garzanti, 2013) sostituisco idealmente lo struggente disegno di Scipione (Gli uomini che si voltano, 1930) che corrisponde perfettamente alla scrittura di Gadda sempre materiata di poetica emotività.
Ha torto chi parla di parodia, nel romanzo non c’è nessuna ironia, l’impasto delle espressioni vernacolari è il frutto esplicito di uno stuporoso e poetico realismo magico, e lo dimostrano i vuoti d’aria improvvisi degli impressionanti e delicatissimi momenti di trasognata implosione lirica.
Marcello Gallian
Negli anni ’70 ho letto tutti i romanzi che sono riuscito a trovare di Marcello Gallian, scomparso nel 1964.
Avevo conosciuto il figlio Enrico, che per me, assieme a Rodolfo Fiorenza, é stato un fondamentale e generoso maestro di irrequieta ribellione contro gli stereotipi come lo era evidentemente suo padre.
Mi dispiaceva non poter parlare a G per fargli sapere che capivo i suoi libri. Uno scrittore di purezza quasi infantile che è stato dimenticato dagli storici della letteratura novecentesca anche per la sua ingenua, anarchica e mai sconfessata adesione al Fascismo, dove peraltro era malvisto come anarchico, un uomo che nel dopoguerra era ridotto in miseria.
Nei suoi testi non ho mai trovato una sola parola che facesse pensare anche lontanamente all’ideologia e alla pratica violenta del Fascismo, come non l’ho mai trovata in Pound, in Pirandello, in Sironi e nell’architettura di Terragni.
Nel 1988 Cesare de Michelis ha curato la ristampa di uno dei suoi romanzi meno interessanti, Il soldato postumo, 1935, con una riflessione intelligente che non è bastata però a suscitare interesse per questo scrittore difficile e nascosto, destinato al silenzio.
A suo tempo ho archiviato tanti articoli e appunti sulla sua opera. Gallian dipendeva evidentemente, anche nei suoi dipinti espressionisti, dal modello di Dino Campana e di Lorenzo Viani. Testi affascinanti, i suoi, visionari e anomali, magici a forza di ingenuità.
Dopo aver letto con avidità i suoi romanzi, i suoi racconti e le sue tante recensioni teatrali, ho provato la sensazione intensa di una anomala autenticità, della ricchezza entusiasmante di una scrittura che investe con passionale intensità ogni dettaglio dell’esperienza: quel realismo magico che poi ho trovato infinitamente più accentuato e poetico in Gadda.
Ho trovato accidentalmente il testo teatrale di G, La casa di Lazzaro, in tre atti, contenente anche Museo da camera, atto unico, editore L’Angioliere, stampato in 500 copie nel marzo del 1956. Nel volume sono riprodotti tutti i ritratti conosciuti di G, in appendice c’é un elenco delle opere e una raccolta di commenti critici. Nella prima pagina bianca c’è una dedica autografa. Una vera antologia di questo autore sfortunato che ho amato molto.
Roberto Bolano
Anselm Kiefer, I Sette palazzi celesti, 2004, Bicocca, Milano
2666 (2004), traduzione di Ilide Carmignani, 2007-2013, Adelphi.
Ho cambiato la brutta copertina del libro con una foto delle torri di Kiefer che ho visto a Milano nel 2006, un’opera strettamente contemporanea al romanzo di B con il quale K condivide la suggestione di profonda tristezza che si prova per un mondo che appare fatiscente e angosciosamente irreparabile. E l’opera di K è vicina a quella di B anche per il forte recupero figurativo dell’icona, che in B corrisponde al pieno recupero della narratività (2016).
Stefano Ercolino studia 2666 nel suo Il romanzo massimalista; Massimo Rizzante (Un dialogo infinito, 2015), uno studioso eccessivamente sbilanciato a favore della cultura latino americana, include Bolano tra i ‘grandi romanzieri del nostro tempo’ accanto a Kundera, Fuentes, Coetzee e Sebald, una classifica discutibile.
Il romanzo è composto da cinque libri con titoli che rievocano esplicitamente quelli della R di Proust: La parte dei critici; La parte di Amalfitano; La parte delle Fate; La parte di Arcimboldi. La ricerca di un autore scomparso è mutuata implicitamente da Borges: L’accostamento ad Almotasim, 1936, in Finzioni. Arcimboldi viene recensito da ‘un certo’ Schleiermacher, omonimo del filosofo tedesco di inizio Ottocento, che definisce il libro epilettico, disordinato, caotico: ‘era un lettore compulsivo di Dostoevskij ?’ (41).
Nel racconto del bambino giapponese (44) c’è un riferimento esplicito a un film di Lynch, che da solo però non giustifica l’accostamento azzardato che viene fatto da qualcuno tra lo scrittore e il regista. In un incubo, in 2666, c’è un altro riferimento epidermico al cinema di Lynch (61).
Ne La parte di Anmalfitano si avverte la desolante cupezza degli argomenti ideati per il racconto grafico dall’argentino Oesterheld (L’eternauta, 1957-1959, Ernie Pike, 1957).
Bolano deve essere stato un giovane generoso e sensibile, ma in 2666 non c’è nessuna forma di creatività autentica, il suo romanzo fa sorridere al confronto con la scrittura perturbante di DeLillo. Ho aspettato inutilmente che si avviasse l’ipnosi fascinatrice della scrittura, ma ho dovuto sopportare l’incubo di descrizioni insignificanti. L’opera di B attesta solamente la ripresa del racconto descrittivo e si pone accanto alla problematica ripresa della neofigurazione, un terreno incerto che segna questi decenni di inizio secolo senza riuscire ancora ad essere convincente sulla possibilità concreta di produrre opere di qualità.
Da Joyce a DeLillo
Da Ulisse sono approdato all’opera di DeLillo. E’ il perturbante che permette alla prosa, oggi, di saldare nuovamente, crocianamente, forma e contenuto, vincendo la forza d’attrazione della visione interna dell’Ulisse e della parossistica visione epidermica della Ricerca, ed è il segno di una concreta necessità, questo registrare lo sgomento individuale, in una fase storica segnata dagli eccessi dell’informazione collettiva e dalla fretta, decelerando la lettura fino a farla coincidere con la percezione lenta e graduale del pensiero individuale.
In DeLillo c’è l’antidoto per l’assuefazione al racconto descrittivo, e questo antidoto per essere efficace deve esistere come ineludibile realtà ipnotica della parola scritta, nella specificità di un racconto in prosa che sia continuamente venato anche di scrittura in versi.